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Giustizia e pace: diritti da salvaguardare e promuovere
Maturità individuale e coesione nella coppia

San Marino, 16 aprile 2011

Tra i sette saperi fondamentali per un’educazione futura, Edgar Morin situa al quarto posto l’insegnamento dell’identità terrestre . A suo parere – ed è davvero difficile dargli torto! - il destino ormai planetario del genere umano è una realtà incontestabile ma spesso ancora sottovaluta nel senso comune. La conoscenza degli sviluppi dell'era planetaria che si dipaneranno lungo il XXI secolo e la coscienza dell'identità terrestre, che sarà sempre più indispensabile a tutti, dovrebbero infatti diventare obiettivi fondamentali dell'insegnamento, come di ogni educazione.

 

A tal fine, spiega lo studioso francese, bisogna lavorare sulla storia dell'era planetaria, che ha inizio con la comunicazione fra tutti i continenti nel XVI secolo, e mostrare come ogni porzione del mondo sia diventata interdipendente, senza occultare le oppressioni e le dominazioni che hanno devastato l'umanità e non sono affatto scomparse oggigiorno. Il fatto è che tutti gli uomini, ormai spinti dagli stessi problemi di vita e di morte, vivono uno stesso comune destino, anche se, sulla scorta dell’immaginario favorito dai tragici eventi dell’11 settembre 2001, siamo comunemente portati ad enfatizzare le loro differenze (che ci sono, naturalmente): fino a dichiarare le culture - e le religioni -, non di rado, irriducibili e incapaci persino di dialogare reciprocamente.

 

 UN PANORAMA COMPLESSO

 

Qualche tempo fa, durante un viaggio in autostrada nell’Italia centrale, ho incrociato su un cartellone una di quelle scritte che, anni addietro, avevano prodotto persino una lunga serie di leggende metropolitane sulle oscure motivazioni che le avrebbero provocate: “Dio c’è!”. Un’affermazione perentoria, lapidaria, di innegabile suggestione soprattutto se collocata sullo sfondo di una stagione - pochi decenni addietro – contrassegnata piuttosto dal sostanziale e generalizzato disinteresse sulle cose religiose. Soprattutto sul loro impatto pubblico, ritenuto di regola pressoché nullo, e scarsamente intrigante per la cultura dominante. I cui slogan andavano dai seriosi “L’eclissi del sacro”, “La fine della religione”, “Per un cristianesimo non religioso” (titoli di veri e propri bestseller nei dintorni della metà degli anni sessanta) a quello, scanzonato ma per nulla banale, di un monologo di Woody Allen che recitava “Dio è morto, Marx è morto, e neanch’io mi sento troppo bene…”. Qualche chilometro più tardi, però, la certezza di una secolarizzazione ormai consolidata era messa a dura prova da un successivo cartello, in cui una mano altrettanto ignota aveva aggiunto in basso, al canonico “Dio c’è!”, un interrogativo quanto mai sintomatico, degno figlio di un altro tempo, fatto di religioni tornate in prima pagina e di un sacro selvaggio e coniugato rigorosamente al plurale: “Ma quale?”. 
La domanda, ovviamente, non è per nulla secondaria. Prima ancora di riflettere sulla qualità dell’accoglienza nelle nostre città oggi, essa, anzi, si rivela - superato l’iniziale sbigottimento - come la domanda delle domande: quale Dio c’è oggi? Quello ambiguamente invocato dal cristiano rinato Bush junior per giustificare al mondo benestante la sua guerra preventiva e infinita; o quello del meticcio Barack Obama che nel discorso d’insediamento alla Casa Bianca sostiene “che il nostro retaggio a patchwork degli Usa è una forza e non una debolezza”, rivolgendosi a “cristiani e musulmani, ebrei e hinduisti e non credenti”; o dal musulmano risvegliato Bin Laden per chiamare le nuove plebi del pianeta a un jihad terroristico e blasfemo? Quello pubblicizzato e venduto a basso prezzo dai mercanti del supermarket del sacro che sfruttano l’ansia postmoderna e il successo della Next Age come un’occasione insperata per produrre ricchezza e intercettare angosce, bisogni e speranze diffusi? Quello certosinamente fotografato dalla sociologia attuale, che parla di una risorta voglia di comunità e di intimità di gruppo, di sorprendenti protagonisti del religioso quali pellegrini e convertiti , constatando in parallelo la crisi sempre meno reversibile di chiese e comunità tradizionali? O quello, infine, in nome del quale Giovanni Paolo II e i leader religiosi mondiali hanno pregato a più riprese a partire dal 27 ottobre 1986, divisi ma assieme, ospiti del Poverello d’Assisi, invocando la pace su un pianeta dilaniato e sbigottito? Difficile, forse impossibile, rispondere. Il quadro accidentato che vi è sotteso rimanda, del resto, ad un ulteriore interrogativo, forse ancor più pressante: che spazio c'è per il dialogo, per un rapporto positivo con l’alterità, nel tempo del ritorno della religione sulla scena del villaggio globale e del pluralismo religioso come esperienza diffusa? Se il primo aspetto presenta la sfida a rendere le religioni un fattore di pace e di convivenza positiva nel contesto di una coscienza sempre più planetaria del nostro vivere sulla terra, il secondo rinvia all'esigenza del riconoscimento rispettoso e accogliente della diversità di fedi e culti. "Dio di ritorno: nel meglio e nel peggio" è il titolo di un bel dossier curato da Henri Tincq per Le Monde qualche anno fa, in cui ci s'interrogava sulle complesse modalità del citato, sorprendente revival . Diaspora del sacro è un’altra locuzione utilizzata, per indicarne la sovraesposizione vistosa persino in ambiti generalmente distanti dal religioso classico: gli scenari del dopo-11 settembre l’hanno ulteriormente posto in luce, con esiti sovente drammatici. Facendocene toccare con mano – esemplarmente, direi - ambiguità e contraddizioni. Si pensi, per fare un esempio, alla discussione apertasi nel 2004 anche dalle nostre parti, in seguito alla Legge del governo francese contro l'esibizione dei simboli religiosi nelle aule scolastiche: veli musulmani ma anche kippot ebraiche, croci di grossa taglia (!) e turbanti sikh . Potremmo proseguire, ma il panorama è evidente: il sacro oggi buca lo schermo, c'è lo Scilla di chi vuole cavalcarlo alla maniera teo-con e il Cariddi di chi ne prova una laicista e palese insofferenza, mentre non è facile per nessuno distinguere fra messaggi corretti, provocazioni o penose strumentalizzazioni. E guardare alla storia, o ai testi sacri, ci aiuta fino ad un certo punto: vi abbondano le contraddizioni, e a ogni frammento di narrazione incentrata sul messaggio della pace se ne potrebbe contrapporre un altro, votato alla violenza. Al Dio della mitezza si può accostare, in un impressionante corto circuito, il Dio degli eserciti e della guerra santa, dell’antifemminista caccia alle streghe e dell’antigiudaismo; alla tregua di Dio, le guerre infracristiane che hanno insanguinato fino a una manciata di secoli fa quell’Europa che oggi – forse per una comprensibile cattiva coscienza – ha scelto di non riconoscere le proprie radici a partire da quell’orizzonte di pensiero. 
Si può senz'altro concordare col cardinal Carlo Maria Martini, per il quale “il pluralismo religioso è oggi una sfida per tutte le grandi religioni, soprattutto per quelle che si definiscono come vie universali e definitive di salvezza: se non si vuole giungere a nuovi scontri, occorrerà promuovere con forza un serio e corretto dialogo interreligioso”. Dialogo contro violenza, dunque, il messaggio sembrerebbe ovvio. Il fatto è che, però, come vettore di pacificazione dialogo è uno di quei termini indispensabili che però oggi rischiano, purtroppo, di non comunicare più nulla per l'estenuazione del loro uso. Per la facilità eccessiva con cui vi si ricorre, senza elaborarlo appieno, fino a erigerlo a inservibile parola-talismano. Certo, paradossalmente: perché al dialogo, in realtà – come insegnano il Concilio e Paolo VI, la pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II e la Charta Oecumenica, fino a Benedetto XVI e al suo viaggio in Turchia di fine 2006 - non esiste alternativa. La questione, semmai, riguarda le modalità operative dei cammini da scegliere per educare a dialogare, in chiave sia ecclesiale sia civile, verso incontri interreligiosi che andrebbero visti come segnali di speranza per il futuro. Sarebbe del resto ingeneroso se il pesante clima politico-culturale odierno e l'intransigenza generalizzata quanto pervasiva ci facessero trascurare che tra donne e uomini diversamente credenti non si danno solo diffidenze o conflitti aperti e irrisolti, ma altresì esperienze d'apertura e fiducia reciproca… Le buone pratiche in tal senso, fortunatamente, non mancano! E se ambienti avvertiti hanno colto da tempo come sia vitale passare dal dialogo delle buone maniere e dei salamelecchi al dialogo nella verità e nella franchezza, i loro esiti risultano purtroppo spesso poco notiziabili, per cui non varcano la soglia d'attenzione del grande pubblico. E’ importante raccontare il positivo che si dà, ma resta annegato nell’informazione allarmistica e tutta urlata cui siamo ormai rassegnati: anche perché il dialogo fornisce ai credenti un'opportunità per esaminare e decostruire assieme l'universale tendenza umana all'esclusivismo, allo sciovinismo, all'odio e alla violenza che possono infettare – e nei fatti stanno infettando - il comportamento e l'identità religiosi.

TRE MODELLI
Soffermandomi schematicamente sui rapporti di accoglienza (presupposto inevitabile della giustizia) fra i cristiani e le religioni altre, e in particolare l’islam, mi pare siano oggi in campo tre distinti modelli. 
Il primo, più arduo da smascherare e più noto all'opinione pubblica poiché già penetrato nel senso comune su entrambi i versanti, è il cosiddetto scontro di civiltà. Secondo una linea di pensiero i cui numi tutelari vanno dal politologo Samuel Huntington alla scrittrice Oriana Fallaci, entrambi scomparsi, sarebbe in atto un clamoroso conflitto dal sapore apocalittico, che consisterebbe in realtà in una vera e propria guerra finale dichiarata dall'islam (tout-court) contro l'occidente, di cui l'11 settembre sarebbe la dichiarazione ufficiale e insieme la manifestazione più spettacolare. Corollari di tale perentoria tesi, la scommessa sull'incompatibilità assoluta fra i due mondi, quasi a leggere le culture come monadi chiuse in se stesse, nonché un'impietosa cultura del sospetto su qualsiasi cedimento al nemico, come l'idea di aprirsi almeno ad una porzione dell'islam da parte del cristianesimo. 
Il secondo modello è rappresentato da una posizione definibile genericamente indifferentista-relativista, frutto malato dell'odierna stagione di vorticosi rimescolamenti sul versante religioso di cui abbiamo detto. A lungo, persino in ambiti sensibili al dialogo ecumenico/interreligioso, si è ritenuto che esso sarebbe stato favorito dalla rinuncia (quanto meno tattica e momentanea) alla propria peculiare identità da parte delle religioni coinvolte. L'incontro si sarebbe svolto più agevolmente, in tale ottica, a partire dalla scelta del cristiano che, posto di fronte ad un musulmano, ad esempio, avesse optato per trascurare, o almeno porre fra parentesi, le verità più scomode agli occhi dell'interlocutore. Ritengo occorra, ora, capovolgere una simile prospettiva. Nessun dialogo autentico potrà avvenire sulla base di una rinuncia alla propria identità (che non è un idolo né un moloch, ma un cammino di ricerca), un generico volemose bene, o un indifferentismo che banalizzi a basso prezzo le differenze. Che ci sono, resteranno, e non vanno minimizzate: semmai, opportunamente contestualizzate, e mai drammatizzate. Un dialogo serio implica interlocutori consci e innamorati della loro identità! “Avere convincimenti fermi – scrive Gustavo Gutierrez - non è di ostacolo al dialogo, né è piuttosto la condizione necessaria. Accogliere, non per merito proprio ma per grazia di Dio, la verità di Gesù Cristo nelle proprie vite è qualcosa che non solo non invalida il nostro modo di fare nei riguardi di persone che hanno assunto prospettive diverse dalla nostra, ma conferisce al nostro atteggiamento il suo genuino significato” . Ricorrendo a un solo apparente paradosso, credo davvero che la capacità di ascoltare gli altri sia tanto maggiore quanto più fermo è il nostro convincimento e più trasparente la nostra identità cristiana. 
Il terzo modello è infine quello del dialogo accogliente, colto come caso serio e kairòs (lemma chiave dei vangeli), occasione propizia per aprirsi al novum, e filo rosso del cristianesimo postconciliare dopo la lunga stagione dell'extra ecclesiam nulla salus. Andrà evidenziato, in ogni caso, come il dialogo si riveli sovente più aspirazione che realtà: un intraprendere l'impossibile e accettare il provvisorio. Risulta perciò più onesto, per ora, limitarsi a parlare di incontri interreligiosi, o più in generale di rapporti interreligiosi o ancora, come fa la teologia più avvertita, di scambi o conversazioni tra persone che vivono esperienze religiose. In più di un documento vaticano - fra cui la dichiarazione conciliare Nostra Aetate e l'enciclica Ecclesiam Suam di Paolo VI - il termine dialogo rende in effetti il latino colloquium, ad evocarne una versione maggiormente dimessa e quotidiana: e quotidiana è la dimensione dialogica che si manifesta nelle relazioni sociali tra credenti di differente appartenenza. Infatti accade spesso, oggi, che la fondante dimensione dialogica sia quella personale, privata, concreta, come quella di fatto sperimentata da quanti hanno a che fare, direttamente e non superficialmente, con immigrati di religioni altre . Più che il dialogo teologico, e quello diplomatico tra istituzioni religiose, pur necessari e senz’altro da potenziare, sembra questa la dimensione più interessante e ricca di conseguenze: ed è dialogo su questioni pratiche, dubbi e speranze, a partire dal vissuto quotidiano, non da problematiche astratte. Su cui anche il mondo delle agenzie educative, evidentemente, avranno molto da dire (e da fare): perché, come sostiene Andrea Canevaro, "l'educazione interculturale non può non fare i conti con le religioni" . 
L’inatteso pluralismo che ci sta attraversando è destinato, prevedibilmente, a porre a dura prova la nostra tradizionale ignoranza in campo biblico e religioso, invitando il mondo della scuola e del Terzo Settore, quello della formazione permanente e quello dell’informazione mediatica ad un impegno più serio e approfondito. Sarà impossibile, in ogni caso, continuare a considerare il fatto religioso come un elemento puramente individualistico o folkloristico, privo di influssi culturali, economici e sociali. Come ogni novità, una situazione del genere potrà provocare paure non gestite e indurre a chiusure intellettuali, come sta facendo, ma anche stimolare a un autentico salto di qualità pure sul piano etico, se sarà vissuta con la necessaria laicità (poiché la laicità aperta è il presupposto di ogni sano pluralismo ). 
Il pluralismo che stiamo vivendo ormai coinvolge direttamente qualche milione di persone nella penisola; indirettamente è una realtà che, arrivando nelle province e nelle periferie, tocca una quota importante della società. Eppure riconoscere il pluralismo, parlare di pluralismo, educare al pluralismo è tutt’altro che ovvio e semplice. Anche perché il sistema politico che dovrebbe garantire un aggiornato quadro di riconoscimento e di governance di simili fenomeni resta al palo di pregiudizi e sottovalutazioni: ad esempio, l’Italia politica - dell’uno e dell’altro polo - sembrerebbe fisiologicamente incapace di produrre una moderna legge che ci porti oltre il retaggio della legislazione sui culti ammessi per avvicinarci a una moderna ed europea cultura del diritto alla libertà religiosa. 
Sì: l’Italia si trova come di fronte ad un muro di vetro ! Sta vedendo il pluralismo, ne coglie gli aspetti esteriori - il ramadan, la spiritualità pentecostale, il rigore dei testimoni di Geova, le mizvot ebraiche, la meditazione orientale… - ma non è in grado di interagire consapevolmente con questa realtà: due mondi prossimi l’uno all’altro, l’uno dentro l’altro ma separati da muri di vetro costruiti su perimetri irregolari che creano intersezioni e persino familiarità, ma mai contatto e relazione. Certo, le eccezioni esistono e tale muro, come tutti i muri che l’umanità ha provato ad alzare, ha delle fratture e dei pertugi che consentono qualche salutare scambio; persino qualche contaminazione. Ma mi pare di poter dire che, ancora attualmente, le culture, le politiche, persino le teologie prevalenti tendono a consolidarlo, questo muro di vetro, che ci mostra gli uni agli altri ma non consente l’interazione, che ci avvicina ma non ci consente di conoscerci. Ne deriva una criticità per la funzionalità di una compiuta democrazia, persino un’arretratezza nel confronto con la realtà di gran parte dell’Unione Europea.

PER UNA FORMAZIONE ALL’ACCOGLIENZA E AL DIALOGO
Personalmente, ritengo che sulla scelta strategica dell’accoglienza, del dialogo e del confronto (ecumenico, interreligioso, interculturale) s'investa ancora troppo poco, sul piano civile ma anche su quello ecclesiale. Lo si relega spesso, di fatto, e al di là delle dichiarazioni di principio, tra gli aspetti meno rilevanti della pastorale ordinaria, confinandolo malinconicamente alla celebrazione di giornate specifiche nel corso dell’anno liturgico (dalla Giornata del dialogo ebraicocristiano il 17 gennaio alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, fino alla più recente Giornata ecumenica del dialogo cristianoislamico, l'ultimo venerdì di Ramadan ). Di più: talora si giunge a metterlo in discussione, e a porne in discussione l’efficacia, senza neppure averlo sperimentato concretamente, e senza avervi impegnato energie, tempo, reale interesse… Siamo così ad una retorica del dialogo, che non fa i conti col fatto che il dialogare - quando è autentico - costa inevitabilmente un prezzo alto, perché ci mette in gioco nell'intimo, e ci può spingere a scelte controcorrente, portandoci a ridiscutere alcune delle nostre abituali sicurezze (il riferimento, in particolare, è a ciò che Raimon Panikkar chiama opportunamente dialogo intrareligioso) . 
“L’educazione e la formazione al dialogo interreligioso, o a una vita di amicizia e di simpatia con persone di altre religioni - scrive padre Sottocornola, fondatore del Centro interreligioso Shinmeizan, in Giappone - deve anzitutto cercare di creare questo atteggiamento generale col quale noi sottolineiamo quello che è positivo, buono, bello nell’altra religione piuttosto che i suoi aspetti negativi, e poniamo l’accento su tutto quello che unisce o favorisce la collaborazione e l’amicizia, piuttosto che su ciò che divide” . 
Si tratta, in vista di tale acquisizione, evidentemente, di avviare un cammino che potrà rivelarsi anche lungo, complesso e accidentato, Ratisbona docet : è inutile farsi troppe illusioni (ma anche fasciarsi la testa prima di averci provato seriamente, beninteso!). Ecco dunque alcune indicazioni di metodo che favorirebbero questo incontro e lo renderebbero meno teso e drammatizzato. Prima di tutto, il dialogo interreligioso dovrà maturare nel quadro di un riconoscimento che chi dialoga non sono le religioni (entità astratte) bensì delle donne e degli uomini in carne ed ossa, con storie, vissuti, sofferenze, speranze, peculiari e irripetibili. Non appaia una considerazione banale, o scontata: quanti errori sono stati compiuti, e continuano a farsi, a causa di una lettura tutta ideologica e metafisica dell’altro ! Gli esempi si sprecherebbero. In primis, creare e favorire occasioni di incontro, dunque, in ambienti che favoriscano il contatto effettivo. Occorrerà poi una buona conoscenza reciproca degli interlocutori coinvolti: conoscenza intellettuale, dei testi e dei documenti ufficiali delle chiese e delle religioni (imparare le religioni), certo, ma anche umana, a partire da un atteggiamento sincero di ascolto delle narrazioni altrui (imparare dalle religioni). Lavorare assieme in qualche settore specifico, ad esempio, affrontando problemi di giustizia sociale o discriminazioni inaccettabili, potrebbe rendere più denso e convincente un rapporto interreligioso. Valorizzare esperienze e testimonianze vissute in un dialogo fecondo, quindi, soprattutto agli occhi dei più giovani – bisognosi di modelli e refrattari alle eccessive teorizzazioni – aiuterà senz’altro il percorso: con l’incontro diretto, quando sia possibile, la visita ai diversi luoghi delle comunità, o almeno il ricorso ai canali audiovisivi (Internet, ad esempio, è uno degli ambiti in cui la dimensione interreligiosa è maggiormente visibile). In caso di interlocutori già maturi, un momento rilevante di formazione alla pratica del dialogo può essere, quindi, l’esperienza o la preparazione ad una condivisione nella preghiera, cioè l’espressione esterna della propria fede personale alla presenza di altri provenienti da differenti contesti religiosi, o insieme ad essi. 
Un’ultima considerazione riguarda la necessità di investire maggiormente nella preparazione e formazione dei giovani (sacerdoti ma anche laici) che si accingano a svolgere un ruolo di guida e di stimolatori sul tema del dialogo nelle diverse comunità. La generazione che ha vissuto in pieno il Concilio sta infatti per concludere la sua vicenda terrena, e il rischio di non passare il testimone a quelle di oggi appare palpabile. Ecco allora l’importanza di ricentrare i curricula degli studi teologici facendo attenzione al dialogo interreligioso e alla conoscenza delle religioni altre, ma anche la pastorale delle parrocchie, i programmi dei movimenti, e così via. L’obiettivo è quello di uscire dal falso presupposto secondo cui il dialogo interreligioso sarebbe un’attività riservata agli specialisti, e assumere come caso serio l’invito dell’enciclica di Giovanni Paolo II Redemptoris Missio, per cui “tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo interreligioso, anche se non nello stesso grado e forma” (n.57) (ma anche, beninteso, tutti gli uomini e le donne di buona volontà, di qualsiasi schieramento). Il che significa, da una parte, che la formazione all’accoglienza dialogica dovrà diventare azione normale della formazione cristiana in quanto tale; e dall’altra, che l’investimento nella preparazione di esperti nel ramo avrà bisogno di una specifica attenzione. Anche perché oggi non possiamo più negare che “senza dialogo, le religioni si aggrovigliano in se stesse oppure dormono agli ormeggi… o si aprono l’una all’altra, o degenerano” . E che, come ama ripetere lo stesso Morin, “chi non si rigenera degenera”.

PER CHIUDERE… LA CITTA’ FUTURA
“Un giorno Yehuda Amichai, il grande poeta della città moderna di Gerusalemme, stava seduto con due panieri di frutta sui gradini accanto alla porta della Cittadella. A un certo punto sentì una guida turistica che diceva: ‘Lo vedete quell’uomo con i panieri? Proprio a destra della sua testa c’è un arco dell’epoca romana. Proprio a destra della sua testa’. Scrive Amichai: Io mi dissi: la redenzione verrà soltanto se la loro guida dice: ‘Vedete quell’arco dell’epoca romana? Non è importante; ma lì vicino, più in basso, a sinistra, sta seduto un uomo che ha comprato la frutta 
e la verdura per la sua famiglia’” .

Brunetto Salvarani 
- docente di Missiologia e Dialogo presso la Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna di Bologna – direttore della rivista CEM Mondialità -
autore di molti testi, tra cui segnaliamo: “ Vocabolario minimo del dialogo interreligioso” ed. EDB Bologna e “il muro di vetro – l'Italia delle religioni” scritto insieme a Paolo Naso ed altri, ed. EMI

Il testo è stato letto dal sig. Carlo Chierico

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